Quale strategia in Medio Oriente per gli USA di Biden

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DOI10.48256/TDM2012_00202

Il bilancio delle politiche di Washington in Medio Oriente, nel corso delle ultime amministrazioni, non ha prodotto risultati particolarmente positivi per gli interessi statunitensi nella regione. Nonostante i tentativi di disimpegnarsi dal Medio Oriente dopo decenni di costosi interventi, le sfide poste dall’area e le ripercussioni internazionali delle stesse continuano (e continueranno) ad influenzare gli interessi statunitensi. L’amministrazione Biden si trova perciò di fronte ad un dilemma: continuare l’impegno a lungo termine nell’area (attraverso la consueta politica basata su minacce e strumento militare) o ripensare ad una nuova fase della strategia statunitense in Medio Oriente.

Medio Oriente: un progressivo ritiro

Se un ritiro dalla regione risulta una volontà assodata, i documenti più recenti della National Security Strategy e della National Defense Strategy, sostengono la necessità di ridurre il numero di risorse da impegnare in Medio Oriente per concentrarle in altre aree del mondo (DoD, 2018a). Gli interessi principali degli Stati Uniti in Medio Oriente sono infatti l’assenza di una singola potenza dominante nel Golfo Persico e la lotta ai gruppi terroristici locali in grado di colpire il territorio nazionale statunitense (NSS, 2017). Nonostante la visione similare sul tema, i metodi e le dinamiche da perseguire per gli attuali policymakers e i sostenitori del cambiamento sono differenti, rendendo i due schieramenti in disaccordo tra loro. 

Il livello di minaccia: uno dei punti di maggiore attrito

Uno dei punti di maggiore disaccordo è la percezione della minaccia. Da una parte c’è chi, ad esempio, riconosce nell’Iran una minaccia significativa agli interessi statunitensi (DIA,2019). Altri, al contrario, non ritengono la minaccia iraniana tale da dominare altre potenze regionali dell’area: si sostiene quindi la necessità per gli USA di supportare le altre potenze regionali (Israele, Arabia Saudita e Turchia) per bilanciare la Repubblica Islamica iraniana (Ashford, 2018a; Rovner, 2016). 

Non mancano infine coloro che giudicano i gruppi terroristici attualmente operativi in Medio Oriente non in grado di rappresentare una minaccia significativa al territorio nazionale. I sostenitori del ritiro non ritengono utili le operazioni di contrasto al terrorismo. Al contrario, queste ultime non fanno che aumentare la minaccia (Pape, 2005). Infine, vedono un ruolo principalmente diplomatico ed economico di Washington nella regione, nonostante una volontà di ridurre la presenza militare statunitense nell’area (Ashford, 2018b): è infatti necessario mantenere i legami con la regione e continuare l’attività di intelligence qualora le possibili minacce agli interessi statunitensi diventassero tali da rendere necessario un ritorno degli USA in Medio Oriente, boots on the ground (Rovner, Talmadge, 2014). 

Vecchie priorità, nuovi interessi

È pertanto possibile ripensare ad una strategia per il Medio Oriente? Per quanto un ritiro totale e un uso limitato dello strumento militare risulta improbabile, un primo passo è rivedere gli obiettivi realistici per Washington. Gli interessi tradizionali degli Stati Uniti nell’area – approvvigionamento delle risorse energetiche, Israele, predominio degli USA quale grande potenza – non sembrano più essere delle priorità.

Nel 2019, gli Stati Uniti sono diventati per la prima volta, dal 1952, esportatori netti di energia, e nel 2020 le importazioni sono ulteriormente diminuite. Le crisi economiche e il crollo del prezzo del petrolio hanno diminuito il potere e l’influenza dei produttori di petrolio nella regione. Gli Stati Uniti sono meno dipendenti dalla regione rispetto agli anni precedenti. L’appoggio ad Israele – per motivi strategici, storici e di natura domestica – non può terminare, ma  rappresenta la principale potenza militare nella regione e non dipende dagli Stati Uniti per la sua sicurezza. Infine, il predominio statunitense nella regione non sembra essere più possibile in un’era di grande competizione globale dove altri attori (Cina e Russia su tutti) sono in grado di sostituirsi agli Stati Uniti.

Una strategia alternativa: le partnership regionali

L’alternativa alla strategia attuale statunitense dovrebbe quindi basarsi su una riconsiderazione di alcuni punti fondamentali: le partnership regionali; la gestione delle minacce; il ruolo dei competitor globali; le policies per raggiungere gli obiettivi strategici (Kaye et al, 2021).

Le partnership devono essere ricalibrate per ottenere i migliori risultati possibili a favore degli interessi statunitensi. La National Defense Strategy del 2018 pone particolare attenzione sul ruolo delle alleanze e delle partnership regionali (DoD, 2018b). Nell’attuale scenario mediorientale, infatti, le partnership servono per promuovere la stabilità regionale. Anche nel caso in cui gli Stati Uniti riducessero il proprio coinvolgimento quale provider di sicurezza nell’area, rimarrebbero un attore importante per la sicurezza della regione, dato che molti Stati dipendono dalle capacità statunitensi.

Un nuovo approccio ai partenariati

Tuttavia, per muovere un passo in avanti, è necessario avere un nuovo approccio alle partnership in Medio Oriente. La divisione degli Stati in blocchi ha contribuito all’instabilità regionale; inoltre, l’approccio esclusivo nei confronti di Israele e il gap con i paesi che hanno riconosciuto lo Stato Ebraico (e non rappresentano più una minaccia per il principale partner mediorientale di Washington) è ancora molto alto. Nel Golfo, l’afflusso di armamenti e le varie guerre per procura hanno reso l’area molto più pericolosa che in passato. 

Superare l’approccio militare è fondamentale: un nuovo approccio deve avere l’obiettivo di raggiungere la stabilità regionale, promuovendo gli interessi statunitensi nella lotta al terrorismo, la non proliferazione, la cooperazione e una migliore governance delle minacce regionali. Le partnership dovrebbero basarsi, e modellarsi, in base alle performance delle parti nei campi di mutuo interesse. L’approccio che vede ingenti somme di denaro e fondi ai “Big 3” (Israele, Giordania, Egitto) deve essere superato. Prendendo ad esempio i numeri del 2020, il paese che ha ricevuto meno fondi dagli Stati Uniti dei tre (l’Egitto) ha ricevuto più di quanto gli altri paesi dell’area MENA hanno ricevuto insieme (Miller, Binder, Keeler, 2020). 

La gestione delle minacce: la politica statunitense nei confronti dell’Iran

Negli ultimi 40 anni, contrastare l’influenza iraniana in Medio Oriente è stato uno dei capisaldi della politica statunitense nella regione. Il motivo è semplice: uno degli interessi vitali degli Stati Uniti nell’area è l’assenza di una singola potenza in grado di dominare e minacciare l’approvvigionamento delle risorse energetiche nel Golfo Persico (Mearsheimer, Walt, 2016a). Tuttavia, non mancano le voci contrarie a questa visione: l’Iran e le altre potenze regionali non sarebbero in grado di dominare il Golfo Persico (Posen, 2006). 

Nonostante ciò, nemmeno i più ottimisti vedono realizzabile un ritiro totale degli Stati Uniti dall’area. Una strategia di contenimento basata sulle partnership non sembra plausibile. Paesi partner come Israele e Arabia Saudita (rivali geopolitici e ideologici dell’Iran), non sembrano infatti in grado di contrastare la minaccia di Teheran. Gli attacchi alle infrastrutture saudite e le schermaglie tra Iran e Israele lasciano presagire un aumento delle tensioni fra le tre potenze, in caso di ritiro statunitense. L’intervento militare statunitense resta quindi dietro l’angolo, come dimostrato anche dall’azione dell’amministrazione Biden. Inoltre, le capacità missilistiche iraniane (e la volontà di utilizzo di Teheran) reprimono ulteriormente ogni sentimento di ritiro (Einhorn, Van Diepen, 2019).

Dalla “massima pressione” di Trump al disgelo di Biden

Se l’ex Presidente Trump aveva perseguito una strategia di “massima pressione” nei confronti del regime iraniano, i sostenitori del ritiro puntano ad una relazione meno conflittuale con Teheran (Mearsheimer, Walt, 2016b). L’amministrazione Biden sembra propendere su questa linea. Il nuovo Presidente ha infatti reso più volte nota l’intenzione di rientrare nel Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano dal quale l’ex Presidente Trump si era ritirato. Ma l’attuale amministrazione dovrà certamente affrontare una nuova fase negoziale che tenga conto delle azioni iraniane in Medio Oriente, della ripresa del programma nucleare, della minaccia ai paesi partner (Singh, 2021), il tutto, cercando di avere l’appoggio del Congresso, ancora diviso tra chi appoggia il ritorno alla diplomazia e chi sostiene la linea dura. 

La situazione ha analogie con la Guerra Fredda e la strategia di contenimento dell’Unione Sovietica. Il contenimento sovietico era incentrato sulla ricostruzione delle capacità europee e la superiorità del sistema occidentale nei confronti del blocco sovietico. Una situazione simile potrebbe essere d’esempio per la strategia di contenimento dell’Iran (Kaye, Lorber, 2012).

Il ruolo dei competitor globali in Medio Oriente

Un ritiro, seppur parziale degli Stati Uniti, non lascia di certo un vuoto. Cina e Russia sono particolarmente attivi nella regione e non è un caso che i documenti statunitensi li hanno designai come principali competitor. I due paesi pongono sfide diverse: la Cina è una potenza economica in ascesa, che vuole guadagnarsi un ruolo di primo piano nel sistema internazionale; la Russia è un’economia inferiore, ma più propensa all’uso della forza militare per seguire i propri interessi (Dobbins, Shatz, Wyne, 2019). Il coinvolgimento cinese nell’area è aumentato notevolmente negli ultimi decenni, tanto da rendere la regione la più importante per Pechino al di fuori dell’Asia-Pacifico (Scobell et al., 2018). 

Diversamente dalla Cina, la Russia ha una lunga storia in Medio Oriente. Seppur l’influenza di Mosca con la fine dell’esperienza sovietica è diminuita, i legami con paesi dell’area come Siria, Algeria, Libia e Iraq, sono rimasti forti. Dal 2005, Mosca ha ripreso l’impegno verso la regione, confermandosi potenza regionale con l’intervento a favore di Assad in Siria (Sladden et al., 2017).

I primi sono ancora gli USA

Gli Stati Uniti sono la potenza dominante in Medio Oriente, nonostante le attività di Cina e Russia. Principale partner di Israele e di molti paesi del Golfo, ha ampi volumi commerciali nella regione, un alleato NATO (seppur con alcuni contrasti) quale la Turchia, è ben 7 paesi della regione sono considerati alleati strategici non-NATO. L’influenza statunitense nell’area è ancora forte, come dimostrano la firma degli accordi di Abramo tra Israele-Bahrein e Israele-Emirati Arabi Uniti. Per la ricerca di investimenti e fondi, gli Stati Uniti, e l’Occidente in generale, rappresentano il mercato più invitante e l’area di maggior interesse. Gli Stati Uniti e i paesi europei rappresentano le mete principali di emigrazione per i giovani della regione (ASDA’A BCW, 2020).

Il crescente coinvolgimento di Russia e Cina negli affari del Medio Oriente dovrà essere tenuto conto dagli Stati Uniti, qualsiasi approccio quest’ultimi adottino. Cercare di cooperare con questi paesi per un Medio Oriente più stabile sarà fondamentale. A lungo termine, infine, un Medio Oriente più sicuro garantirà benefici anche a Mosca e Pechino.

Adattare le policies

L’insieme degli strumenti che il governo statunitense utilizza garantiscono molteplici obiettivi. Parliamo infatti di interessi di natura economica, istituzionale e di sicurezza, al fianco di altri incentivi per lo sviluppo economico. Tuttavia, la militarizzazione della politica estera statunitense in Medio Oriente non ha prodotto i risultati sperati. Washington deve ripensare la sua strategia, ampliando il proprio potenziale (Gates, 2020). La sua politica estera, in conclusione, deve guardare globalmente alla regione, focalizzandosi su temi collettivi e sfide transnazionali.

E’ quindi necessario riadattare le policies attraverso alcuni principi: in primo luogo, spostare il paradigma dagli investimenti militari ad un approccio più bilanciato che dia priorità anche allo sviluppo economico, alla governance e allo sviluppo della società, in particolare i giovani, essendo la maggioranza della popolazione nella regione al di sotto dei 30 anni e spesso senza lavoro; puntare ad obiettivi a lungo termine più che a breve termine, tenendo conto l’importanza di ridurre i conflitti e la diffusione delle violenze nell’area; monitorare e adattare i programmi per raggiungere gli obiettivi desiderati.

Conclusione

L’amministrazione Biden ha perciò l’opportunità di cambiare la strategia statunitense in Medio Oriente dopo decenni di risultati poco ottimali. Un cambio di mentalità dall’approccio tipicamente militare risulta necessario. Ciò è possibile attraverso tre principi generali: uno spostamento delle risorse da iniziative puramente militari ad un approccio più globale; iniziative regionali ed investimenti a lungo termine per ridurre le variabili che rendono la regione instabile; partnership forti con i paesi dell’area.

Bibliografia (A-M)

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